Giancristiano Desiderio

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La commedia della Zti

In filosofia storia on 30 dicembre 2013 at 7:41 PM

Ho quarantacinque anni e da più di trenta sento parlare della chiusura o della regolamentazione del traffico delle automobili nel centro storico di Sant’Agata dei Goti.  Se vi dico, come il signor Baglioni, che mi sono rotto i coglioni, mi potete dare torto? E’ più facile che un cammello entri nella cruna di un ago piuttosto che si riesca a regolare civilmente l’ingresso delle auto a via Roma e via Riello. Colpa dei vigili? No, dei santagatesi che sono abituati ad avere la botte piena e la moglie ubriaca, ma anche di chi governa e finge di volere ciò che non vuole. Le cose stanno così. Impazza la questione della cosiddetta Ztl  – zona traffico limitato –  che nei fatti è una Zti: zona traffico illimitato. La limitazione non riguarda il giorno  – quando serve –  ma la notte, quando non serve. Perché? Per due motivi: primo perché un paio di anni fa a Sant’Agata dei Goti c’era la movida e le vie del centro erano trasformate in un rally cittadino notturno; secondo perché i commercianti vogliono che i clienti entrino con le auto direttamente in negozio. La movida della gioventù annacquata non c’è più mentre i commercianti fanno come la suocera del povero signor Baglioni e così gli amministratori hanno pensato bene di istituire di notte la Ztl e di giorno la Zti. Insomma, dei geni. Leggi il seguito di questo post »

L’inutilità del prefetto

In politica on 28 dicembre 2013 at 3:42 PM

I prefetti e le prefetture non servono a niente ma in Italia nulla è più tutelato di ciò che non serve. Luigi Einaudi diceva (e scriveva): Via il prefetto. Il governo Letta li promuove e moltiplica. Mentre abolisce (forse) le Province, aumenta il numero dei prefetti che sono giusto il doppio delle Province: 207. Una volta il prefetto  – che è una creatura napoleonica che trasforma la precedente figura governativa del potere assoluto: l’intendente –  serviva a qualcosa ma oggi non ha più i poteri di una volta, non ha responsabilità, né precise competenze. Non serve a niente. Pura burocrazia. Bella statuina. Quindi? Va conservata. Addirittura aumentata. La burocrazia fine a se stessa è l’unica cosa che non muore mai. In Italia ogni governo che passa lascia la sua eredità di enti, sottoenti, uffici, direzioni, dirigenti la cui resistenza all’estinzione è inversamente proporzionale alla loro utilità. La burocrazia è come Attila: dove passa non cresce più l’erba. Solo erbacce.

Teodoro Klitsche de la Grange ha pubblicato il saggio Funzionarismo (edito da Liberilibri) e ne consiglio vivamente la lettura. Il computer mi sottolinea in rosso la parola “funzionarismo” e ha ragione perché la parola non esiste neanche nel vocabolario. Ma, come notavano Tacito e Hobbes, è un trucco del potere nascondere perfino le parole con cui è indicato. Il funzionarismo indica il potere della burocrazia e soprattutto di un potere illegittimo che cresce su se stesso a danno dei servizi e delle libertà. La organizzazione burocratica fa parte dello Stato moderno ma ne è più un effetto collaterale che una stringente necessità. In uno Stato moderno, figlio della borghesia attiva, si sa che la burocrazia è un pericolo per lo stesso Stato e se ne fa un uso moderato e strettamente necessario. La burocrazia è utile ed efficiente solo se è poca, agile, contenuta. Quando aumenta, s’ingrossa, avanza è dannosa. La burocrazia, in fondo, altro non è che un “aiuto”  – e i burocrati dovrebbero essere proprio questo: aiutanti, come li chiamava Miglio –  ma in Italia è l’esatto opposto: sono i cittadini utili alla burocrazia. Nessuno lo ha detto meglio, forse, di Giustino Fortunato: “Proporzionalmente così alla popolazione come ai pubblici servizi, lo Stato italiano annovera il maggior numero d’impiegati, specialmente di quelli che hanno mansioni esecutive, triste espressione del nesso indissolubile che è in Italia fra il proletariato intellettuale e il funzionarismo, due escrescenze parassitarie di un organismo debole e malato”.

Quando aumenta il potere illegittimo della burocrazia diminuisce l’autorità dello Stato. Politici e burocrati si spalleggiano e sostengono scambievolmente. La difesa corporativa della burocrazia da parte della politica esprime la forza della burocrazia e la debolezza della politica. E’ cosa molto rara imbattersi in un politico e in un burocrate che conoscano lo Stato e le deviazioni della sua “macchina”: al contrario, politici e burocrati lavorano nei loro rispettivi interessi per aumentare sempre più il potere “della macchina per la macchina”, come si esprimeva proprio Fortunato. La burocrazia è idiota per sua stessa natura. riproduce sempre se stessa e se non la si ferma e governa aumenta il suo potere. Ogni ufficio vuole diventare un ministero. Ciò che interessa alla burocrazia non è il servizio o la soluzione del problema ma la sua esistenza in vita. Ma la vita della burocrazia è la morte della società. L’unica consolazione è che il potere burocratico essendo sterile  – è una sanguisuga –  non dura. Il socialismo reale è stato storicamente l’esempio maggiore di crescita ed espansione del potere burocratico ed è durato poco più di settant’anni. L’Italia è il Paese più amministrato del mondo e proprio per questo motivo è il Paese peggio amministrato al mondo. Qui abbondano impiegati di tutti i livelli e sottolivelli, dirigenti di ogni specie e ognuno è a capo di un ufficio, di una sezione, di un’agenzia distaccata e di una subagenzia. Le Province sono state abolite nella loro parte politica ma resta in piedi quella burocratica: una sorta di auto-negazione o auto-castrazione. La burocrazia è invincibile. Peggio del cancro. Sappiamo che si devono abolire le Regioni. Ma cos’è che non lo permette? La burocrazia. L’aumento (apparentemente) inarrestabile della burocrazia è una delle cause del declino italiano. Il solo comune di Roma ha più impiegati di New York. Siamo il Paese in cui la burocrazia è stata innalzata a visione e stile di vita. In Italia la burocrazia non è un modo per amministrare il Paese ma il Paese è un modo per amministrare la burocrazia: non serve, ma è servita.

La Fortezza

In benevento on 22 dicembre 2013 at 12:09 PM

La maggior colpa dei dirigenti del Pd non è la politica ma la letteratura. Il simpatico e volenteroso Mino Mortaruolo, al quale auguro cento di questi giorni, ha un cognome che è più adatto al rinnovamento di un camposanto piuttosto che al rinfrescamento di un partito. I nomi sono importanti. Anche i cognomi. La direzione del Pd beneventano  – che in giro ho visto riportata nientemeno che con la maiuscola: la Direzione, come un Ente gnostico o un Politburo asiatico o uno Scaldabagno –  è tutta delbassodecariana. Stabilmente delbassodecariana ma di quella “stabilità da cimitero” di cui la stampa estera ha parlato per la legge di Stabilità del governo Letta. Il Mortaruolo per conservare bene i suoi beni museali ha scelto un luogo nella sua bella Torrecuso  – paese che, come Catullo, amo e odio –  e il luogo ha un nome che da solo vale tutto un programma tragico e comico: La Fortezza.

Ma, benedetto figliolo, dal momento che ti stai apprestando a dare vita  – si fa per dire –  ad una direzione politica imbalsamata, ti vuoi almeno accertare che i nomi, i simboli, i richiami, le allegorie se non saranno proprio di sinistra, non suonino almeno sinistri? La Fortezza richiama fin dal nome l’immagine di un fortino, di un bunker, di una trincea, di un mausoleo in cui ci si cala e rinchiude per resistere. Una sorta di mondo parallelo che raccoglie la vita che un tempo era detta “di partito” e che ora nel momento del trapasso non vuole dipartire ma si vuole eternare in una specie di eterno ritorno dell’uguale in cui tutto ciò che accadrà è già accaduto una, cento, mille volte e continuerà ad accadere sempre uguale a se stessa nei secoli dei secoli amen.

La direzione del Pd pare sia composta da quaranta membri più aggiunte varie. Un ufficio politico  – esistono ancora gli uffici politici, come le candele e i lumini –  di circa cinquanta nomi per una provincia che non a caso è la più anziana della Campania. Il Pd beneventano si appresta ad avere più dirigenti che elettori e alle prossime elezioni se non sarà sepolto sotto la pioggia dell’astensione lo dovrà al suo principale nemico  – Matteo Renzi –  e alla vecchia cara abitudine dell’elettore catto-comunista che è ordinatamente mosso dallo “spirito del gregge”. Pensate un po’: tutti questi un tempo predicavano addirittura la rivoluzione. Sono diventati tutti notai.

La Fortezza di Torrecuso sembra la Fortezza Bastiani del bellissimo romanzo di Dino Buzzati Il deserto dei Tartari. Il sottotenente Giovanni Drogo viene assegnato ad un avamposto ai confini del Regno e davanti alla Fortezza c’è una desolata pianura, il deserto dei Tartari, appunto, che un tempo fu teatro di battaglie cruenti e campali per respingere il nemico che portava minacce e morte ma, per paradosso, anche forza perché dava a tutti una ragione di vita. Ora, invece, il tempo passa dopo altro tempo già passato e nulla accade che non sia già accaduto e i militari sono vittime di se stessi, della loro inoperosità e del fascino sinistro della Fortezza che li tiene rinchiusi tra le sue mura nella disciplina del regolamento marziale e nell’esercizio della vigilanza del nulla del deserto. Ci vorrebbe un nemico per dimostrare il valore dei militari e di Drogo che avanza nella carriera solo per l’avanzare della Morte. La vita scorre via nella più completa inutilità.

La Fortezza di Torrecuso è, nel suo neorealismo letterario e cinematografico di una Benevento immobile e marmorea, il compimento perfetto del “potere inutile” del Pd di Benevento. Non è una metafora che si è fatta realtà ma, al contrario, è la stessa realtà che si è trasformata in metafora. Tutto il Pd di Benevento non è ormai più un fatto reale ma appartiene al mondo della letteratura. I suoi rappresentanti più che avere carattere sono caratteristici e caricaturali, sono la personificazione di stati d’animo, la raffigurazione di personaggi: il notabile, il sindaco, l’onorevole, il capobastone, il factotum, il mediatore. Credono di essere reali mentre sono solo finzioni sceniche di un mondo passato che non vuol passare. Sono personaggi letterari che credono d’essere uomini politici. Mentre il mondo si rinnova e incanutisce, loro sono chiusi come fantasmi nella Fortezza.

Ridere è una cosa seria

In filosofia storia on 21 dicembre 2013 at 5:29 PM

 

La classica definizione dell’uomo come “animale razionale” è risibile. Non perché l’uomo, che l’abate Galiani definiva “animale assurdo”, non sia razionale ma perché la razionalità si basa sul tragico e ancor più sul comico che caratterizzano al meglio la condizione umana. Porfirio nel suo Isagoge, proponendo una fortunatissima sintesi della logica di Aristotele, accantona la formula aristotelica secondo cui “proprio dell’uomo è l’esser capace di apprendere la grammatica” e la riformula dicendo che “il riso è il proprio dell’uomo”. Proprio così. Ciò che contraddistingue l’uomo è il riso per cui l’homo sapiens è homo ridens e, infatti, il filosofo greco nelle Parti degli animali osserva che “nessun animale ride, salvo l’uomo”. Il riso, si direbbe, è cosa seria perché mostra come siano diverse la scienza e la vita. Lo spirito è spiritoso. Per quanto possa essere piccolo o frivolo, quello della barzelletta è pur sempre un mondo con un suo senso compiuto che funziona in modo diverso da come funziona un computer, una macchina, una cronologia. Leggi il seguito di questo post »

Gli occhi di mia madre

In filosofia storia on 11 dicembre 2013 at 3:03 PM

Gli occhi di mia madre sono tristi. Dalla piccola stanza 408 guardano fuori, come alla ricerca della luce. Il mondo visto dal quarto piano dell’ospedale Rummo di Benevento si manifesta più piccolo. Dalla finestra rettangolare, alta e stretta, si vede uno spicchio del vialone intitolato alla memoria di Raffaele Delcogliano e le automobili che vanno di qua e di là diventano più piccole ed entrano ed escono dallo specchio della finestra come le macchinine che fanno brum brum di quell’Italia di una canzone per me ora ignota. Sono seduto vicino a mamma che ogni tanto mi guarda ma non parla e mentre la nostra compagna di stanza racconta di una terapia che le avevano prescritto a Bologna, leggo con qualche fatica un romanzo di Moravia  – 1934 –  che inizia con una domanda dalle molte risposte: “E’ possibile vivere nella disperazione e non desiderare la morte?”. Mia madre vive nella disperazione ma vive. Non desidera morire. Vuole vivere anche se i suoi occhi non hanno più quella luce che lei insegue al di là della finestra. Leggi il seguito di questo post »

La peggiore classe dirigente di Benevento

In politica on 9 dicembre 2013 at 5:47 PM

In Italia ha vinto Renzi, a Benevento Cuperlo. Il sindaco di Firenze ha detto che non è finita la sinistra ma la peggiore classe dirigente degli ultimi trent’anni. A Benevento le due cose coincidono: sinistra e classe dirigente sono la stessa cosa. La peggiore classe dirigente della sinistra governa male, molto male a Benevento e dintorni da tempo con il peggior sindaco della sua storia. L’affermazione di Cuperlo è il segno concreto della presa del potere di un gruppo dirigente che ha fatto della conquista del partito il suo strumento prediletto e privilegiato per il mantenimento del suo potere inutile. Una classe dirigente che ha contro di sé un malcontento diffuso che, però, non si è espresso se non limitatamente a favore di Renzi perché in fondo è esso stesso figlio di una cultura di sinistra vecchia, stanca, partitica. A Benevento i riformisti, che non sono riformatori, sono andati al governo mentre un’altra sinistra è rimasta alla finestra ad abbaiare alla luna con le solite sterili ma costosissime litanie socialiste, stataliste, confusionarie e anche democristiane. Ecco perché Renzi a Benevento non ha vinto. Leggi il seguito di questo post »

La scuola conformista

In politica on 27 novembre 2013 at 10:13 am

Con i primi freddi arrivano anche le stagionali occupazioni delle scuole. Da Napoli a Caserta passando per gli istituti dei paesi delle province, gli alunni e le alunne si organizzano, si passano la voce e occupano aule e corridoi. Sono cinquant’anni che questa abitudine, in varie forme, si ripete. E mezzo secolo è un tempo lungo, molto lungo sia per una democrazia sia per un sistema scolastico. In cinquant’anni, ossia il tempo di almeno tre generazioni, tante cose possono cambiare e sono cambiate. Ma la scuola, pur con tutte le teorie e gli slogan delle riforme possibili e impossibili, non cambia mai e ripete in modo sempre più stanco lo stucchevole rito conformista delle occupazioni che sono diventate il senso stesso della scuola: infatti, più la scuola è occupata e più è disoccupata, più è piena e più è vuota, più è statale e più è privata. Guardiamo in faccia la realtà.

I ragazzi occupano le scuole perché così si è sempre fatto. L’occupazione è una vacanza anticipata delle vacanze di Natale. I motivi per cui si occupa sono tradizionali: no alla scuola privata, sì alla scuola pubblica, niente tagli. Idee, come si vede, molto generiche che vanno bene per ogni generazione che senza studiare vuole difendere il diritto allo studio. Gli insegnanti sono disorientati e non sanno che pesci prendere perché le cose che ripetono gli studenti sono le stesse che ripetono loro in assemblee sindacali e in cortei su viale Trastevere a Roma. Eppure, basterebbe anche solo soffermarsi sulla cronaca per intuire che, ad esempio, dire “no ai tagli” mentre il debito pubblico è ben oltre il 120 per cento del Pil è un controsenso. Inoltre, non è per nulla vero che in Europa si investe nella scuola e in Italia no: è vero, invece, che da noi, per quello che è il sistema scolastico, si spende di più ma male. Quanto poi al trito e ritrito dibattito sulla scuola “privata” e “pubblica” nessun insegnante è in grado di pronunciare parole vere ai propri studenti e dire che la scuola è pubblica per definizione e, soprattutto, che il problema italiano non è quello di statalizzare il privato ma quello di liberalizzare il sistema scolastico con investimenti dei privati, delle famiglie, della società che si organizza, degli enti locali per sostenere un diritto allo studio che invece la sola gestione statale della scuola non è più capace di garantire.

Ieri mattina, alle ore 8, avevo di questi pensieri in testa mentre, seduto alla cattedra leggevo un brano di Giovanni Gentile sulla scuola e i ragazzi con la loro bella e sfacciata gioventù gridando e cantando  – ci mancava solo che cantassero Giovinezza o Bella ciao –  si appropriavano del liceo Manzoni di Caserta. Alcune ragazze sono entrate in classe per la lezione, ma la maggioranza è rimasta nei corridoi per la “autogestione”. Ho chiesto: “Quali sono i motivi dell’occupazione?”. Un’alunna mi ha risposto: “Boh, non lo sanno neanche loro. Dicono i tagli, la scuola pubblica e la Terra dei fuochi. La verità è che così non fanno niente”. Proprio come l’anno scorso, come dieci, venti anni fa, come l’anno che verrà.

tratto dal Corriere del Mezzogiorno del 27 novembre 2013

I 50 anni di Adelphi e i libri unici

In filosofia storia on 21 novembre 2013 at 6:41 PM

Per i suoi splendidi cinquant’anni, la casa editrice Adelphi ha pubblicato un numero unico di Adelphiana – 1963 2013. E’ un libro  – librone –  che ripercorre mezzo secolo di storia editoriale che inevitabilmente è un pezzo (consistente) della cultura italiana. Tutti e cinquanta gli anni sono raccontati con i libri pubblicati, con le copertine, con gli autori, con immagini rare o particolari. Un libro che raccoglie come in un solo sguardo la storia dell’Adelphi e  – per dirla con lo stesso Roberto Calasso –  la sua forma. Il testo, infatti, andrebbe letto e sfogliato insieme con un altro libro pubblicato nella primavera scorsa da Adelphi e scritto dallo stesso Calasso: L’impronta dell’editore. E’ vero quanto sostiene Calasso ossia che la storia dell’editoria è una storia in gran parte non scritta e, forse, proprio per questa sua “oralità” è ancora più affascinante. L’idea di Calasso è che la Adelphi sia di per sé un solo unico libro e i testi pubblicati sono i capitoli di questo unico testo che è la casa editrice ideata per la prima volta da quel personaggio affascinante e misterioso che fu Roberto Bazlen. Un’idea possibile? L’idea sì, senz’altro; ma la realtà no, perché che i libri di un editore siano i capitoli di un unico libro  – come se ciò che si pubblica fosse un “serpente di libri” –  è un sogno, al più un’utopia o un’idea dalla quale deriva, appunto, L’impronta dell’editore. E oggi ciò che manca agli editori italiani, ammesso che esistano ancora “animali” di questo genere, è proprio la loro “impronta”, la capacità di essere editori, se stessi. Leggi il seguito di questo post »

L’editore che creò la letteratura sportiva

In filosofia storia on 21 novembre 2013 at 5:57 PM

La letteratura sportiva sotto forma di casa editrice è stata inventata e creata in Italia da Enrico Mattesini. Prima di lui esistevano solo titoli dispersi e “pagine sparse” editi dalla Baldini & Castoldi e dal gusto superiore di Oreste del Buono; dopo di lui c’è un ricco catalogo di testi e autori che raccontano e illustrano uomini cose e idee dello sport e formano una vera e propria enciclopedia della letteratura sportiva. A metà degli anni Novanta il geniale e generoso mercante d’oro e d’argento di Arezzo realizzò il sogno che da tempo accarezzava con la moglie Giovanna: Limina, edizioni dedicate interamente al valore civile dello sport. Il primo libro pubblicato fu un clamoroso successo  – tanto di critica quanto di pubblico, come si usa dire -: La farfalla granata di Nando dalla Chiesa che raccontava la vita, il gioco e la morte di Gigi Meroni. Le pagine del libro del figlio del generale ucciso dalla mafia sono un po’ il simbolo o il senso stesso della scommessa dell’impresa editoriale tentata e vinta da Mattesini: lo sport come arte e cultura, epica e letteratura, lotta, sudore e morale. Leggi il seguito di questo post »

Siamo tutti sgarrupati

In politica on 20 novembre 2013 at 12:01 PM

Siamo tutti sgarrupati. La parola “sgarrupato” è entrata nell’uso comune, nel linguaggio giornalistico e nella lingua letteraria con il bestseller Io speriamo che me la cavo di Marcello D’Orta. Ci sono parole che ci aiutano a capire i fatti e perfino noi stessi. Ci sono uomini che ci aiutano a comprendere i fatti prim’ancora che i fatti accadano o siano chiari ai più. Il libro del maestro della scuola di Arzano ha ieri anticipato la comprensione di ciò che siamo oggi. Siamo tutti sgarrupati. Una delle alunne del maestro  – Antonella Schioppa –  ha raccontato che Marcello D’Orta faceva leggere ai suoi bambini i temi in classe e registrava la lettura. Molti anni dopo a casa del maestro Antonella ha potuto riascoltare la sua voce da bambina mentre leggeva in classe. Il maestro conservava tutto: i compiti, le voci, i regali dei bambini. Leggi il seguito di questo post »